Esperienze che toccano. Che regalano momenti belli. Insoliti.
Io che sono alla ricerca continua di mille vite, di viverne ancora altre cento. E qui è stato assaporare, toccare, vedere, sentire e ascoltare attimi di tempi mai vissuti.
L’aria di questo ottobre è ancora così mite che il piacere di mangiare una pizza all’aperto è ancora vivo…
Una decina di tavoli ricoperti da drappi di tessuto pesante, bello datato, sedie di vimini intrecciate, comode. Il tutto sotto a un immenso tendone, su un marciapiede leggermente in pendenza.
Alla mia sinistra, incanto: porta San Gennaro, la più antica della città (risalente all’anno 928, è in questa collocazione dal 1537), con la Vergine, San Gennaro e San Francesco Saverio affrescati da Mattia Preti a vegliare sulla caterva di persone che la attraversa ogni giorno.
Mi giro e con occhio attento vedo inciso sulla sinistra, nella facciata marmorea all’ingresso, la scritta “Pizze Fritte”: eh bè, fino alla fine del 1800 il pizzaiolo era un friggitore, le pizzerie non esistevano e dalle botteghe partivano con le stufe in testa i venditori ambulanti di “Pizze cavere, magnat’!”.
Il profumo di storia è troppo inebriante, devo entrare…
Pizzeria Capasso dal 1847.
Quasi un secolo e mezzo. Pensate.
Ecco, mi sento di entrare in un museo vivente. E tutto è come un tempo: locale classico, importante, che si sviluppa su due piani, forno in rame all’ingresso bello in vista, ricordi e dettagli alle pareti, volti noti dello spettacolo che hanno mangiato tra queste mura da Totò ai fratelli Taranto. Mi raccontano che è sottoposto alla supervisione della Sovraintendenza per il suo valore storico.
Una storia ricca. Sette generazioni di pizzaioli. La tradizione parte con i Lieto nel Vasto: la nonna Adele Lieto poi aprì con il giovane marito Giovanni Capasso, sino ad allora materassaio, il locale di Porta San Gennaro; tre dei loro otto figli si dedicarono all’arte dei nonni, ma uno di questi, Giuseppe, divenuto Cafasso per un errore di un dipendente dell’anagrafe che scambiò una F per una P, apri un locale tutto suo a Fuorigrotta.
Una pizzeria dalla trama materna, femminile, che tramanda un sapere antico, un arte intrisa nei pavimenti, nelle pareti piene di necessaria umanità.
…e quanto avrei gioito se avessi incontrato don Vincenzo, maestro vero, classe 29, il decano dei pizzaioli napoletani, l’uomo che insistette per aggiungere la parola Verace all’atto della costituzione della Associazione Pizza Napoletana.
Verace. Come la pizza qui, verace!
Il menù si presenta visivamente turistico ma evidenza un estremo legame con la tradizione: pizze classiche, anzi classicissime, un bel po’ di fritte, qualche rivisitata e qualche dedica, tutte realizzate con prodotti stagionali. Il locale fa anche da ristorante.
D’un tratto scorre sotto ai miei occhi la storia di Napoli.
Una circonferenza grande fa capolinea al piatto, cornicione timidissimo, ben condita e ricca di ingredienti molto profumati. Cottura ottima, spicca il profumo d’olio e di fior di latte. Si avverte qualcosa che trascende, la margherita e la marinara rievocano quelle di una volta, quelle difficile da trovare, da centro storico. Un impasto da disciplinare, preparato con un blend di farine 00 e 01 che lievita per circa 24 ore con l’aggiunta del segreto di famiglia.
La Capricciosa vestita di forte tempra che risorge davvero gloriosa.
Applausi per la Fritta. Succulente, dorata, prelibata e appetitosa, fatta a regola d’arte dove l’unto non è pervenuto.
Quanto amo la storia. E Napoli. E la pizza.
E qui c’è un concentrato di tutto ciò.
Cari Capasso, grazie per questo racconto!
Centenariamente così!











